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Anacoluto
Quando un errore diventa una forma artistica: l’anacoluto
Tra gli errori ne esiste uno, generalmente classificato nelle grammatiche scolastiche come un grave errore di sintassi e per questo aborrito da maestri e professori in qualsiasi tema, che rappresenta, in realtà, una struttura di grandissima diffusione nella letteratura. Si tratta dell’anacoluto, un errore sintattico dalla grande forza espressiva, molto utilizzato da scrittori e romanzieri al fine di riprodurre i modi del linguaggio orale, per ottenere una maggiore efficacia di espressione o per caratterizzare certi personaggi.
Dal greco “anakólothos”, “che non segue”, l’anacoluto è una figura retorica che consiste nello spezzare il nesso logico di una frase, cambiandone il soggetto a metà.
Si tratta quindi di una rottura della regolarità sintattica del periodo, in cui non è rispettata volutamente la coesione tra le varie parti della frase, com’è tipico, appunto, della spontaneità improvvisata della comunicazione parlata, che necessita di un’espressione immediata e spedita dei concetti. Succede: spesso si inizia una frase in un modo e si finisce in un altro.
Prendiamo ad esempio il titolo del libro di Marcello D’Orta: “Io speriamo che me la cavo”. Questo è un anacoluto: l’"io" resta zoppo, monco, un conato di frase anteposto al compiuto "speriamo che me la cavo" (tralasciando, in questa sede, l’errata coniugazione del verbo!). Però, proprio grazie all'anacoluto, il soggetto logico della frase, “io” appunto, risalta, conferendo maggiore colore ed enfasi all’espressione stessa che in questo modo risulta molto più vibrante.
Perciò, quello che è additato come errore quando viene pescato nella composizione scritta di uno studente, può essere una raffinatezza stilistica quando è utilizzato da un autore per ottenere un certo effetto artistico.
Ma d’altra parte, chi potrebbe correggere Alessandro Manzoni quando nel capitolo XXXV dei "Promessi sposi" fa parlare così Renzo Tramaglino: "quel birbone che, se non fosse stato lui, Lucia sarebbe mia da venti mesi"? Nessuno.
Proprio grazie a questo errore sintattico, a quel “che” seguito da un nuovo soggetto e nuovo predicato, emerge tutta la foga, la poca lucidità di Renzo, accecato dalla rabbia nei confronti di Don Rodrigo.
Se avesse detto correttamente “quel birbone: se non fosse stato per lui, Lucia sarebbe mia da diversi mesi”, la frase non avrebbe avuto la stessa potenza espressiva.
Ma questo è solo dei numerosi esempi ”illustri” di utilizzo di questo artificio letterario. Abbiamo Machiavelli, che nella lettera all’amico Vettori scrive: “mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui”; oppure Ugo Foscolo, nella sua “A Zacinto”: “colui che l'acque cantò fatali”; o Giovanni Verga ne “I Malavoglia”: "si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua".
Come si vede da questi esempi “illustri”, chi scrive e conosce le regole, è in grado di andare oltre e proprio nella ponderata e sapiente trasgressione di certi parametri convenzionalmente riconosciuti, riesce a dare colori più forti al proprio stile.
Però occorre saper ribaltare le carte in tavola. Uno scrittore alle prime armi deve prestare molta attenzione ad utilizzare questo tipo di virtuosismi linguistici perché per farlo occorrono una certa maturità espressiva e una certa dimestichezza con la lingua, affinché si riesca a creare una potente figura retorica e non un banale errore di sintassi.