La Divina Commedia

Riassunto della Divina Commedia online, con i canti dell'inferno

Dante Alighieri, il cui nome di battesimo era Durante, considerato il padre della lingua italiana, nasce a Firenze nel 1265. Sin dalla fanciullezza Dante si dedica allo studio degli antichi ( Virgilio, Orazio e Stazio) e frequenta quel gruppo di giovani poeti fiorentini che cantavano l’amore, portando il giovane Alighieri a impegnarsi nella poesia dello “stil novo” ( in questo gruppo di poeti vi faceva parte anche il suo amico Guido Cavalcanti). Dante compone le sue poesie d’amore per la giovane e bella Beatrice, alla quale dedica la Vita Nuova promettendole nell’ultima pagina di quest’opera un componimento di maggiore valore e ancora di più degno di lei. Ma Beatrice morì prematuramente, portando dolore nel cuore del giovane Alighieri, che si riconforta dedicando il suo tempo alla vita politica della sua città, partecipando a diversi imprese militari e diplomatiche, che lo portarono fuori da Firenze. L’ultimo allontanamento dal capoluogo toscano per questioni politiche avviene nel 1302, anno della condanna all’esclusione da ogni carica politica e all’esilio perpetuo.

 




Dante, tempo dopo, riceve l’offerta di ritornare a Firenze ma a condizioni ritenute dal poeta troppo umilianti, spingendolo a rifiutare la proposta e restare definitivamente fuori dalle mura della sua città. Ormai lontano da Firenze, l’Alighieri si dedica alla composizione di due trattati, uno filosofico (Convivio) e uno linguistico ( De Vulgari Eloquentia), lasciandoli però incompiuti, per dedicarsi fino agli ultimi anni della sua vita alla composizione della sua maggiore opera, la Divina Commedia, per un periodo che occupa quasi quindici anni della sua vita.

La storia della Divina Commedia è ambientata precedentemente rispetto alla sua scrittura: siamo infatti nel 1300, l’anno del primo Giubileo istituito da Papa Bonifacio VIII, pontefice non molto stimato dallo stesso Dante, poiché ritenuto uno dei colpevoli della sua condanna all’esilio; scegliendo questo anno Dante ambienta la narrazione dell’opera in un momento storico di grande rilievo per la religione cristiana.

La Divina Commedia si compone di 100 canti, divisi in tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso) ognuna costituita da 33 canti, più un proemio ( il canto I dell’Inferno): tale struttura riporta ad una composizione numerica ben definita sostenuta dall’influenza della religione cristiana nell’epoca Medioevale, essendo 100 il numero perfetto e il 3 il simbolo del mistero della Trinità e il numero delle categorie in cui sono strutturati i tre Regni ultraterreni.

Nell’opera si racconta del viaggio di Dante, un uomo semplice, che rappresenta l’intera umanità, attraverso i tre Regni dell’aldilà: l’Inferno, il regno del Male, il Purgatorio, il regno delle anime purganti che ambiscono al cielo e il Paradiso, il regno dei beati. Il cammino di Dante inizia in una foresta, simbolo della perdizione nella quale l’anima di ogni uomo può cadere nel corso della propria vita. Come avviene nella vita, anche in questo viaggio la strada diventa sempre più angosciosa per il pellegrino Dante, il quale di fronte agli ostacoli che si trovano in questa foresta viene aiutato da una guida, l’anima del poeta Virgilio: l’antico poeta, il quale con la sua opera portò conforto nella vita del Fiorentino, gli spiega come il suo arrivo sia stato richiesto da Beatrice, la donna tanto amata da Dante, che si trova nel Paradiso.

Virgilio convince Dante a seguirlo in questo cammino che lo porterà a incontrare diversi personaggi, sia uomini antichi e sia della cronaca dell’epoca, i quali attraverso le loro parole gli permetteranno di conoscere i tormenti che lo perseguiteranno nel corso della sua vita ( gli saranno rivelate le profezie dell’esilio, si parlerà di Firenze e della sua politica, ma anche della situazione storica dell’Italia e del Vaticano). Lo scopo di questo viaggio, voluto dal Cielo, è quello di portare all’intera umanità attraverso le parole di Dante la verità assoluta, che oscurata dalla dannazione dell’Inferno sarà rivelata nel Regno di Dio.


divina commediaA cura di Martina Michelangeli.

Testi tratti da libro "Il canto V e il canto XXXIII dell'Inferno di Dante. La percezione del bene e del male attraverso alcune serie rimiche della Commedia"




 

Divina Commedia o Comedìa?

Nell’Inferno (canto XVI v. 128) Dante si riferisce alla sua opera definendola “comedìa”, cioè Commedia; mentre noi moderni aggiungiamo a questo sostantivo l’aggettivo “divina”. Come mai esiste questa doppia denominazione dell’opera?

Il termine “divina” venne dato posteriormente rispetto alla composizione dell’opera, a tal punto che lo stesso Alighieri non conobbe mai tale appellativo per il suo testo: difatti la prima apparizione dell’aggettivo “divina” si ebbe nel 1555 in un’edizione dell’opera stampata a Venezia dal tipografo Gabriele Giolito e curata dal poeta Ludovico Dolce (precedentemente a Dolce fu Giovanni Boccaccio, in quanto primo allievo e fedele del poeta fiorentino, a usare l’aggettivo “divino” riferendosi però alle opere dantesche in generale).

Si possono dare due interpretazioni riguardo all’uso di tale aggettivo da parte del poeta Dolce: la prima spiegazione si può riferire al giudizio positivo che si dava dell’opera, per esaltarne l’eccellenza e la perfezione; la seconda interpretazione può riferirsi a un’indicazione a livello di contenuto del componimento, poiché nell’opera sono trattati argomenti dell’aldilà, perciò di un mondo divino-ultraterreno.

Per essere fedeli al volere dell’Alighieri, che propone il titolo “Comedìa” per qualificare la scelta dell’argomento dell’opera ( si narra di un viaggio ostile e arduo, che poi si concluderà positivamente) si dovrebbe nominare la sua opera solo con il sostantivo “Comedìa”, termine che egli ripete anche nell’Epistola a Cangrande ( XIII, 28-31) in cui si legge:

Il titolo del libro è “Incomincia la “Comedìa” di Dante Alighieri fiorentino di nascita, non di costumi.

Le figure femminili nella Divina Commedia

Con Francesca da Rimini, nel canto V dell’ “Inferno”, si apre lo spazio dedicato alle figure femminili della “Commedia”: Dante con la sua Opera riesce a dare una grande importanza alle donne, considerate nell’epoca medioevale inferiori nella gerarchia sociale rispetto agli uomini.

Ma le donne che Dante incontra lungo il suo viaggio nell’aldilà riportano alla luce il valore della figura femminile nella letteratura e nel culto religioso nel pensiero culturale del Medioevo: le donne sono motivo di venerazione nelle immagini della Madonna e delle sante e oggetto d’amore nelle donne-angelo dello Stil Novo.

Nella “Commedia” la collocazione delle donne lungo il viaggio di Dante ha uno scopo ben preciso: quando l’esule fiorentino viene tratto in salvo dall’anima del poeta Virgilio, gli sarà rivelato che in suo aiuto si sono mosse “ tre donne benedette”, Beatrice, S. Lucia ( Santa alla quale Dante era devoto) e la Vergine Maria. Da questa rivelazione si capisce come il cammino del pellegrino Dante procede sotto la protezione delle figure femminili, alle quali l’Alighieri già dal primo Regno ultraterreno dedica uno spazio di rilievo: Francesca da Rimini è il primo dannato con cui Dante scambia un dialogo lungo il suo viaggio, perciò il primo personaggio che si racconta e che permette al pellegrino Fiorentino, vivo fra i morti, di comprendere come l’essere umano, durante la vita terrena, può cadere in tentazione a causa del cattivo uso dell’intelletto, e per questa colpa non riuscire a ritrovare la via della salvezza per la propria anima.

Il valore che Dante ha nei riguardi delle figure femminili e della loro condizione nella società della sua epoca viene riportata in tutte e tre le cantiche, in tre canti specifici con tre personaggi: Francesca da Rimini nell’Inferno ( canto V), Pia de’ Tolomei nel Purgatorio ( cantoV) e Piccarda Donati nel Paradiso (Canto III).

Queste donne con le loro storie permettono a Dante di comprendere come le diverse scelte nella vita mondana possono cambiare la condizione dell’anima nell’aldilà, e lo aiutano a crescere interiormente lungo il suo cammino per essere pronto ad accogliere le parole della donna per eccellenza: l’amata Beatrice.


La prima biografia di Dante

La prima biografia di Dante Alighieri venne scritta dal suo “primo fedele” Giovanni Boccaccio: il poeta di Certaldo ci ha lasciato diversi ritratti del poeta Fiorentino, come si addiceva al compito del migliore discepolo.

Giovanni Boccaccio sin dalla giovane età riutilizza elementi caratteristici della “Commedia” dantesca: dalla forma metrica della terzina a determinati termini usati nel capolavoro di Dante.
Nel corso della sua vita Boccaccio si dedica all’impegnativo lavoro di commentatore della “Commedia”. Per rendere onore al suo ruolo di fedele il certaldese si dedica alla scrittura della biografia dantesca nella sua opera il “Trattatello in laude di Dante”, consegnando ai posteri il primo ritratto di Dante.

La scrittura del “Trattatello” si colloca fra l’unione di diversi generi letterari: dalla fedeltà documentaria e il genere dell’agiografia; si racconta dei particolari più importanti della vita di Dante, dall’origine della sua famiglia, ai suoi studi giovanili, all’amore per la bella Beatrice e la sua prematura morte, la vita politica e il doloroso esilio, arrivando spesso alla cadenza musicale della favola.
La prima biografia di Dante Alighieri venne scritta dal suo “primo fedele” Giovanni Boccaccio: il poeta di Certaldo ci ha lasciato diversi ritratti del poeta Fiorentino, come si addiceva al compito del migliore discepolo.

Giovanni Boccaccio sin dalla giovane età riutilizza elementi caratteristici della “Commedia” dantesca: dalla forma metrica della terzina a determinati termini usati nel capolavoro di Dante.
Nel corso della sua vita Boccaccio si dedica all’impegnativo lavoro di commentatore della “Commedia”. Per rendere onore al suo ruolo di fedele il certaldese si dedica alla scrittura della biografia dantesca nella sua opera il “Trattatello in laude di Dante”, consegnando ai posteri il primo ritratto di Dante.

La scrittura del “Trattatello” si colloca fra l’unione di diversi generi letterari: dalla fedeltà documentaria e il genere dell’agiografia; si racconta dei particolari più importanti della vita di Dante, dall’origine della sua famiglia, ai suoi studi giovanili, all’amore per la bella Beatrice e la sua prematura morte, la vita politica e il doloroso esilio, arrivando spesso alla cadenza musicale della favola.

Boccaccio esalta il poeta Fiorentino contrapponendo la sua virtù e moralità al disordine e alla malvagità della città di Firenze: Dante è una vittima del sistema civile sbagliato della sua città, traditrice verso l’uomo che l’ha sempre amata e che fino alla fine dei suoi giorni coltivava il desiderio della ricerca della fama e della gloria letteraria per rientrare trionfante a Firenze e ricevere la laurea poetica, che mai avvenne, secondo il Boccaccio, per l’avversa disposizione della Fortuna.

Giovanni Boccaccio con il “Trattatello” propone ai suoi contemporanei, e ai posteri, la sua intenzione di costruire, servendosi di dati oggettivi e notizie che si sono susseguite nel tempo, il mito di Dante, definendolo un uomo degno di una biografia che si avvicina a un racconto dalle sfumature agiografiche.

I canti della Divina Commedia

I canti politici

Il tema politico ricorre spesso nella “Commedia” e vengono individuati come i “canti politici” i canti VI.
Nel sesto canto della prima Cantica ci troviamo nel girone dei golosi, la cui pena è di essere rivolti verso terra, flagellati dalla pioggia e torturati dal demone Cerbero, il cane a tre teste, guardiano di quel cerchio. Il personaggio con il quale Dante avrà un dialogo è il goloso Ciacco, un suo concittadino al quale sarà affidato il primo ruolo di rivelatore della profezia dell’esilio.

Dante tratta della riflessione politica riferendosi all’ambito comunale di Firenze, rivelando il proprio giudizio dalle parole del suo concittadino peccatore: si condanna la città toscana per la corruzione, il mal governo e le continue lotte fra le fazioni della città; si rivela anche la polemica morale per Firenze e i suoi cittadini: la decadenza etica della città è data dalla superbia del potere, dall’invidia tra i potenti e dall’avarizia dei mercanti, portando con questi vizi alla rovina morale della città.

Nel canto VI della seconda Cantica l’argomento politico si pone come intermezzo fra i canti VI dell’Inferno e del Paradiso: la polemica politica viene indirizzata verso l’Italia, cioè sulla Nazione come istituzione intermedia fra Comune e Impero, non essendo all’epoca di Dante ancora formata l’Italia come Stato. Dante affida la sua polemica al poeta Sordello da Goito, uno dei maggiori poeti italiani di lingua provenzale: viene descritta la situazione drammatica dell’Italia, lacerata da continue guerre e ingiustizie a causa del poco interesse da parte della Chiesa e dell’Impero; viene condannata la società dell’epoca che dovrà essere pronta a ricevere l’arrivo di un risolutore, sotto forma di punizione divina o nella figura di un imperatore guidato dalla Grazia divina.

Come il viaggio di Dante è un percorso in ascesa, anche la polemica politica segue lo stesso moto del pellegrino: nella terza Cantica il motivo politico cresce e attraverso le parole dell’imperatore Giustiniano, nel canto VI del Paradiso il poeta rivela la polemica contro le partigianerie che divino l’impero cristiano. L’imperatore descrive in modo sintetico la storia del potere dell’Impero romano, dalle sue origini con Enea fino a Carlo Magno, pronunciando però una violenta invettiva verso l’età contemporanea di Dante, in particolare contro i ghibellini e i guelfi: i primi sono colpevoli di traviare il significato del potere imperiale e i secondi addirittura di contrastarlo, portando con le loro continue guerre alla mancata realizzazione politica dell’impero voluta dal Cielo.

Questo concetto di Impero protetto dalla Grazia divina porta Dante a ribadire la sua idea di divisione del potere spirituale, affidato al papa, e al potere materiale, affidato all’imperatore: queste due autorità devono collaborare in modo autonomo ma allo stesso tempo devono essere concordi per realizzare il disegno divino di un mondo senza peccato e nella pace.

L'allegoria delle tre fiere del primo canto dell'Inferno

Il primo canto dell’Inferno è l’introduzione generale al testo dantesco: è il proemio che sommato agli altri 99 canti, 33 per ogni Cantica, compone la “Commedia” di 100 canti.

Nel canto I dell’opera il poeta descrive sin dal primo verso la situazione narrativa, con lo smarrimento del protagonista nella selva del peccato, richiamando il lettore al significato morale che sarà centrale nel testo: il cammino dell’anima di ogni uomo, rappresentato dal pellegrino Dante, verso la salvezza può essere ostacolato da un periodo di traviamento morale nel corso della propria vita.

Il poeta nella selva tenebrosa capisce di aver smarrito la strada verso la salvezza e cerca di lottare contro l’oscurità del peccato per raggiungere la redenzione della propria anima; ma Dante perde la speranza di salvarsi quando la sua strada sarà ostacolata da tre fiere: una lonza, un leone e una lupa.
Ogni particolare nel poema dantesco, che sia un animale o un oggetto, ha un significato allegorico, cioè un valore morale che riporta a specifici significati simbolici: le tre fiere che ostacolano il cammino del pellegrino Dante sono i vizi, che nella vita di ogni uomo portano al peccato e quindi alla rovina virtuosa dell’anima.

Ma quali sono i tre vizi rappresentati dalle fiere? La lonza, dal pelo macchiato e dal corpo flessuoso, è il simbolo della lussuria, il primo peccato di incontinenza, causata dal sopraffarsi del desiderio alla ragione ( difatti l’Inferno vero e proprio inizia con il girone dei lussuriosi, nel canto V); il leone è l’allegoria della superbia, peccato che non si trova nell’ordinamento morale dell’Inferno: la superbia insieme all’invidia sono ritenute da Dante il principio di ogni male, sono peccati naturali e preliminari a tutti gli altri e quindi già “incorporati” nell’animo degli uomini dopo il Peccato Originale; infine la lupa, simbolo della cupidigia e dell’insaziabile avidità degli uomini verso gli onori e i beni materiali: un peccato che non corrode solo l’anima degli esseri umani in quanto individui ma anche in quanto rappresentanti delle istituzioni civili ed ecclesiastiche.

La struttura del Purgatorio

Il pellegrino Dante dopo la terribile visione del Signore delle Tenebre, raccontata nel canto XXXIV della prima Cantica, ascende insieme alla sua guida Virgilio nel secondo Regno ultraterreno, il Purgatorio: la sensibilità, sia fisica che intellettuale del Poeta cambierà nel corso di questo nuovo viaggio, così come sarà diversa l’atmosfera dell’intera Cantica.

A differenza dell’Inferno nel Purgatorio le anime non sono statiche in un unico luogo stabilito dalla Sapienza divina, ma si muovono per espiare le proprie colpe e salire fino alla beatitudine, seguendo la forma del Regno: una montagna sulla cui cima si trova il Paradiso Terrestre. ( Ricordiamo che il Purgatorio venne idealizzato nell’età Medioevale, ma secondo i canoni attuali della Chiesa Cattolica i Regni ultraterreni sono due: l’Inferno e il Paradiso).

La base del monte del secondo Regno è coperta da una spiaggia dove si trovano le prime anime purganti schierate nell’ Antipurgatorio, nel quale il Poeta incontra le anime dei negligenti suddivisi in quattro schiere, rispettivamente: i morti scomunicati, i pigri, i morti per violenza e i principi, quest’ultimi collocati nella valletta amena.

Completata la schiera dei negligenti il pellegrino Dante attraversa la porta del Purgatorio, entrando nel secondo Regno diviso in sette cornici, numero dei sette peccati capitali, che si suddividono a loro volta in tre sezioni: dalla prima alla terza cornice ci sono le anime di coloro che mancarono all’amore di Dio per “malo obiettivo”, cioè per l’amore rivolto verso il male; nella quarta cornice camminano le anime degli accidiosi, coloro che ebbero mancanza verso Dio per scarso amore del bene; infine dalla quinta alla settima cornice si trovano le anime di coloro che dedicarono il loro amore per i beni terreni, cioè gli avari e i prodighi, i golosi e i lussuriosi.

L’ultima tappa del viaggio lungo il Regno dei purganti è il Paradiso Terrestre, dove Dante incontrerà la sua nuova guida Beatrice.

 

La struttura del Paradiso

La struttura del Paradiso dantesco riprende la cosmologia geocentrica aristotelica del cosiddetto sistema tolemaico: al centro dell’universo si trova la Terra e intorno ad essa ruotano nove sfere concentriche, i nove cieli del Paradiso ( rivelando l’esistenza di una gerarchia di perfezione e di gratitudine verso l’amore di Dio).

Il terzo Regno ultraterreno non è un luogo fisico: gli angeli che Dante incontrerà sono un effetto di luce e musica e tutti gli “abitanti” di questo Regno si trovano nell’Empireo, ma in ogni cielo il Pellegrino incontra dei beati per rendere comprensibile alla sua mente mortale l’esperienza del Paradiso, come gli sarà spiegato dalla sua guida Beatrice.

Le prime sette sfere celesti riprendono il nome dai sette pianeti che hanno la loro orbita intorno alla terra e rispettivamente:

il cielo della Luna, cielo degli angeli e degli spiriti che mancarono ai voti;
il cielo di Mercurio, cielo degli arcangeli e degli spiriti attivi per desiderio di gloria;
il cielo di Venere, cielo dei principati e degli spiriti amanti;
il cielo del Sole, cielo dei potestà e degli spiriti sapienti;
il cielo di Marte, cielo delle virtù e degli spiriti militanti;
il cielo di Giove, cielo delle dominazioni e degli spiriti giusti;
il cielo di Saturno, cielo dei troni e degli spiriti contemplativi.

L’ottavo cielo è la sfera celeste delle Stelle Fisse, cielo dei cherubini nel trionfo di Cristo e di Maria, in cui orbitano tutti gli astri in posizioni reciproche e sempre uguali fra loro.

Nel nono cielo si trova il Primo Mobile, o Cristallino, il cielo dei serafini, il quale regola il movimento di tutti gli altri cieli sottostanti. Tra il Primo Mobile e l’Empireo ci sarà per il pellegrino Dante lo scambio di guida: Beatrice cederà il suo ruolo a San Bernardo, teologo mariano, che dovrà completare l’insegnamento di Beatrice nel percorso della Fede e intercederà presso la Vergine per permettere a Dante di contemplare la visione del Sommo Bene, di Dio.

Si arriva all’ultima tappa di questo lungo viaggio voluto dalla Grazia Divina: Dante si trova nell’Empireo, un luogo eterno, infinito di pura luce e amore, e fuori dal sistema fisico delle stelle, dei cieli e del tempo, dove si trova la Candida Rosa, con i beati e i cori angelici, arrivando alla visione ultima del Poeta che avverrà nel momento in cui Dante rivolgerà i suoi occhi alla luce divina, fissando il suo sguardo direttamente in Dio.

I canto inferno

Comincia la prima parte della Cantica dell’Inferno, nella quale si racconta dello smarrimento del poeta Dante di Firenze all’interno di una selva oscura. Il primo canto dell’Inferno è concepito come un prologo dell’Opera.

Dante racconta in prima persona di essersi smarrito in una selva, poiché ha perso la via del bene. L’attraversamento di questa selva è un’impresa difficile e ardua, che il solo ripensarci rinnova la paura nell’animo di Dante: è così angosciosa che poco più è la morte. Dante rivela che in questo cammino difficoltoso parlerà anche del bene che riuscì a trovare, ma prima dovrà raccontare tutto quello che ha visto.

Il pellegrino non ricorda come entrò nella selva, perché nel momento in cui abbandonò la via della verità e della salvezza era pieno di sonno, e quindi non cosciente.
Durante il cammino attraverso la selva Dante giunge ai piedi di un colle alla fine di quella spaventosa valle: il monte è illuminato dai raggi del sole, portando speranza al povero Dante e quieta anche la paura che era durata così tanto nel profondo del suo cuore nella notte passata con tanta angoscia. Dante si sente così spaventato nell’animo e guarda il cammino intrapreso fino a quel momento così terribile da non lasciare vivo nessuno, e si sente come colui che dopo essere sopravvissuto ad una tempesta volge gli occhi per guardare l’acqua pericolosa.

Dopo essersi riposato Dante riprende il cammino cercando di salire il monte, ma all’inizio della salita si presenta davanti al pellegrino una lonza agile e molto veloce, ricoperta dal pelo maculato: non si allontana ma ostacola il cammino di Dante a tal punto che egli è sul punto di ritornare indietro. Sono le prime ore del mattino, nella stagione primaverile, e Dante vendendo nel cielo il sole e le stelle cerca di ritrovare la speranza di salvarsi dal pericoloso animale; ma tale speranza svanisce quando il pellegrino viene ostacolato da un altro animale: un leone, che si muove verso Dante con la testa alta e con fame rabbiosa da trasmettere così tanta paura che sembra che anche l’aria tremasse alla sua presenza. Si presenta come ostacolo a Dante anche una lupa, che così bramosa nella sua magrezza causa al pellegrino tanta sofferenza e apprensione portando Dante a perdere del tutto la speranza di raggiungere la cima del monte. Dante si allontana dal monte per la paura verso la lupa, sentendosi come colui che facilmente vince al gioco ma arriva l’occasione in cui perde e si rattrista.

Mentre Dante si sente sempre più cupo e triste gli appare dinanzi agli occhi una figura, che per un lungo tempo nella storia non venne mai nominato, e quando lo spaventato pellegrino lo vede gli chiede chi fosse e se si trattava di un uomo o di uno spirito. L’altro risponde di essere l’antico poeta Virgilio, che nacque al tempo di Giulio Cesare e visse sotto l’impero di Augusto e cantò le gesta di Enea dopo la guerra di Troia. Virgilio chiede a Dante il perché del suo arresto verso la salita del monte, e il pellegrino spiega la sua paura di salire a causa della lupa che gli ostacola il cammino. Virgilio gli rivela che non è quella la strada giusta per salvarsi, poiché quella bestia non lascia passare nessuno per la sua strada e l’ostacola tanto che può uccidere, ma la sua malvagità però sarà presto sconfitta portandola a morire con dolore.
Virgilio consiglia Dante di seguirlo e l’antico poeta sarà la sua guida per salvarlo attraverso un luogo eterno, dove si odono le grida disperate di chi soffre da molto tempo e invoca per il dolore la seconda morte; vedranno coloro che nel fuoco sono felici perché sperano di raggiungere, quando sarà il loro momento, le anime beate, le quali Dante potrà vedere accompagnato da un’altra anima degna di salire nel cielo.

Dante a queste parole si rivolge a Virgilio chiedendogli in nome di Dio di aiutarlo a salvarsi da questo male, se non addirittura dalla morte, per guidarlo nei luoghi descritti.
A questo punto i due poeti intraprendono il lungo viaggio versi i regni eterni.

II canto inferno

Il giorno volge al termine e i due poeti si preparano a svolgere il faticoso viaggio dell’angoscia: Dante chiede aiuto e supporto alla Muse, per far sì che la memoria possa ricordarsi di questa impresa dimostrandone il valore.

Dante però non si sente sicuro di questo cammino e chiede alla sua guida Virgilio di giudicare se la sua virtù sia in grado di affrontare l’arduo viaggio portando alla memoria dell’antico poeta la sua maggiore opera, l’ “Eneide”, nella quale si racconta dell’avventura di Enea durante la sua discesa nell’Ade: Dio fu benevolo con lui perché pensò alle grandi conseguenze che dovevano derivare da questa impresa, come padre della santa Roma e dell’Impero.

Dante porta a Virgilio anche l’esempio di un altro uomo: S. Paolo, pilastro della Fede cristiana, il quale attraversò il Paradiso e secondo una leggenda del Medioevo anche l’Inferno.

Dante, da uomo mortale, chiede alla sua guida come possa un uomo semplice come lui intraprendere questo lungo viaggio: lui non è Enea e nemmeno S. Paolo e non si ritiene degno di questo compito così importante, temendo di rendere folle questo cammino. Dante con questo pensiero riferisce la sua paura di non riuscire a completare questo viaggio, come colui che cambia idea dopo varie riflessioni.
Virgilio, dopo l’esposizione da parte di Dante dei suoi dubbi, risponde al pellegrino chiedendogli se fosse giusto ritenere il suo cuore ricco di viltà, la quale spesso ostacola l’uomo a tal punto da farlo indietreggiare di fronte ad una nobile impresa, come una falsa ombra spaventa un animale.

A questo punto Virgilio rivela a Dante lo scopo di questo suo viaggio, per liberarlo da questo timore che gli logora il cuore: quando l’antico poeta si trovava nel Limbo, insieme alle anime che sono sospese, fu chiamato da una donna santa e bella, tanto che Virgilio la pregò di chiedergli qualsiasi cosa. Gli occhi dell’anima della donna brillavano più di una stella e con tono dolce e pacato iniziò a parlare di Dante all’antico poeta: la donna rivela a Virgilio che l’uomo che l’aveva tanto amata in vita si è smarrito sulla spiaggia deserta ed è ostacolato nel suo cammino, e per la paura provocata dai vari ostacoli ha deciso di tornare indietro; la donna sperava di non essersi mossa dal Paradiso troppo tardi. La bella anima riferisce a Virgilio di andare a salvare Dante e fare tutto ciò che fosse necessario per la sua salvezza. La donna a questo punto si presenta: si tratta dell’anima di Beatrice, che viene dal Paradiso e per Amore si spinse nel luogo dove si trova Virgilio allontanandosi dal Cielo. Beatrice dirà a Virgilio che quando si ritroverà di nuovo davanti a Dio lo loderà per ringraziarlo di questo compito. Dopo aver detto ciò Beatrice tacque.

Virgilio risponde di essere onorato di aver ricevuto questo incarico da una così bella e virtuosa creatura, chiedendo anche il motivo per cui Beatrice non ha temuto di scendere dal Cielo per arrivare nel Limbo.
La donna risponde che lei non ha nessun timore a scendere fra le anime che vivono nel buio per la mancanza della luce divina, e quindi essendo stata resa beata da Dio l’infelicità degli altri non la può colpire. Beatrice spiega che nel Cielo la Vergine si rattristò per gli ostacoli trovati da Dante nella sua impresa e chiamò S. Lucia, santa alla quale il pellegrino era devoto, la quale a sua volta andò da Beatrice domandandole come fosse possibile che lei non sentisse l’angoscia e la paura di colui che l’amò. Beatrice a quelle parole non esitò ad allontanarsi dal Cielo per scendere nel Limbo ponendo fiducia in Virgilio. La donna dopo aver dato questa risposta rivolse gli occhi che brillavano per le lacrime e questo spronò ancora di più Virgilio ad aiutare Dante.

Dopo aver raccontato tutto ciò l’antico poeta chiede a Dante il perché ancora dei suoi dubbi e perché ancora è fermo e gli mancano coraggio e sicurezza: tre donne benedette lo proteggono dal Paradiso e le parole fino adesso dette devono allontanargli la paura nel cuore.
A queste parole Dante si sente rincuorato e sente crescere l’ardore nel suo animo per questa impresa rivelando a Virgilio di sentire il desiderio di affrontare questo viaggio e di procedere nel cammino, nel quale Virgilio sarà sua guida, suo signore e suo maestro. Non appena disse questo i due poeti continuarono per questo viaggio arduo e selvaggio.

Canto III Inferno

Il terzo canto dell’Inferno comincia con la trascrizione delle parole che si trovano sulla sommità della porta del Regno del Male: “attraverso me si entra nella città della sofferenza, attraverso me si entra nel dolore senza fine, attraverso me si entra tra la gente dannata. La giustizia ha guidato il mio supremo creatore, mi ha creato la divina potenza, l’altissima sapienza e il sommo amore. Prima di me non sono esistite cose eterne e io duro per l’eternità. Lasciate ogni speranza, voi che entrate”.

Quando Dante legge queste parole, scritte a caratteri neri, chiede al suo Maestro il loro senso e Virgilio come persona saggia risponde che da questo momento Dante deve abbandonare ogni timore e ogni viltà, perché stanno per visitare il luogo dove le anime hanno perduto Dio, luce della ragione; dopo aver detto ciò Virgilio tende la mano a Dante per entrare in quel luogo inaccessibile.

Qui Dante sente i sospiri e i forti lamenti, che risuonano nell’oscurità del luogo, provocandogli il pianto: si sentono lingue diverse, orribili pronunce, parole di dolore, esclamazioni di rabbia e un forte battere di mani, creando un tumulto che in quel luogo senza luce per l’eternità risuona continuamente, come la sabbia quando suona con il turbine.

Dante continua ad avere dei dubbi e chiede al Maestro che cos’è quello che sente e chi sono queste persone che vivono in così tanto dolore. Virgilio risponde che in queste condizioni di sofferenza stanno le anime dannate di coloro che in vita vissero senza infamia e senza lode, queste sono unite a quella rea schiera di angeli che furono ribelli a Dio: i cieli li cacciano per non offuscare la loro bellezza e non li accoglie neanche la parte più profonda dell’Inferno, perché i dannati di questi luoghi potrebbero vantarsi dei loro peccati. Dante continua a chiedere al suo Maestro quale dolore provoca questi lamenti e Virgilio risponde in questo modo: questi dannati non possono sperare nella morte e la loro condizione di vita è oscura a tal punto che li rende invidiosi di qualunque altra sorte. Sono state persone così cattive che il mondo non ha nessun ricordo di loro. Virgilio consiglia a Dante di non curarsi di questi dannati e di passare oltre.
Dante prima di allontanarsi vede un’insegna che girando corre così rapidamente che sembra non possa mai fermarsi: questa insegna è seguita da una folla di anime così numerose che il pellegrino non avrebbe mai creduto che la morte potesse fare tante vittime. Dante riesce a riconoscere qualche dannato e distingue l’anima di colui che nella vita terrena fece con grande viltà il gran rifiuto: dalla visione di questi dannati Dante capisce che si trova tra la schiera dei malvagi, disprezzati da Dio e dai suoi nemici. Questi sciagurati si muovono nudi e continuamente punti da mosconi e vespe: queste rigano il loro volto di sangue, che si mischia con le loro lacrime e il tutto viene raccolto da dei vermi che si trovano sotto i piedi delle anime maledette.

Allungando lo sguardo Dante scorge una folla di dannati fermi presso la riva di un grande fiume e chiede al Maestro chi sono e perché sono così ansiose di oltrepassare il fiume e Virgilio risponde che i suoi dubbi saranno risolti quando arriveranno vicino alla riva e a quelle anime. Dante credendo di disturbare la sua guida abbassa la testa in segno di vergogna e non rivolge domande fino al fiume.

All’arrivo al fiume Dante vede arrivare un vecchio su una barca, con i capelli bianchi per l’età avanzata, che minaccia gridando le anime malvagie: il demone ha il compito di trasportare le anime all’altra sponda, nelle tenebre eterne, nel caldo e nel gelo. Il nocchiere nota che Dante è un uomo vivo, e non un’anima, e gli ordina di allontanarsi dai morti; Dante però non si allontana e il vecchio continua il suo discorso avvertendo il pellegrino vivo che non è questa la strada che lui deve seguire, e che dovrà aspettare un altro nocchiere con una barca più leggera. Virgilio interviene e riferisce a Caronte, il traghettatore delle anime dannate, di non arrabbiarsi e di eseguire gli ordini che sono stati voluti dal Cielo, dove si può avere tutto ciò che si vuole, e non domandare più nulla a Dante. Dopo questa risposta Caronte si calma, ma le anime che si trovano nel luogo all’udire queste parole dure iniziano a tremare dalla paura: bestemmiano Dio, i genitori, i loro avi e tutto il genere umano. Il demone Caronte con gli occhi di brace riunisce tutte le anime e le colpisce con il remo, e Dante descrive la scena della salita delle anime sulla barca, abbandonando la spiaggia, come quando le foglie in autunno si staccano dal ramo ad una ad una lasciando l’albero spoglio. Dante si accorge che prima di essere giunti all’altra sponda una nuova schiera di dannati è ammassata in quel luogo: Virgilio spiega che chiunque muore nell’ira di Dio in qualunque parte del mondo poi si ritrova lì e non passa mai un’anima in grazia e quindi Dante non deve temere il duro parlare di Caronte.

Dette queste parole la terra trema così forte che il solo ricordo riporta paura nel cuore di Dante: quella terra di sofferenze sprigiona un vento così forte che balena una luce rossastra e ha la meglio sulla mente di Dante che sviene come un uomo preso dal sonno.

Canto IV Inferno

Il canto IV comincia con il risveglio di Dante dal suo sonno profondo che viene interrotto da un forte tuono, e il pellegrino si desta come chi viene svegliato bruscamente; Dante volge lo sguardo intorno e alzandosi in piedi guarda con attenzione per capire in quale luogo si trova: capisce di trovarsi sull’orlo della cavità infernale piena di sofferenza che raccoglie il fragore di lamenti senza fine, nel buio e nella nebbia così fitta tanto che per quanto Dante cerca di fissare lo sguardo non riesce a distinguere nulla.
Virgilio parla al suo allievo dicendo che stanno scendendo nel mondo senza luce, egli andrà avanti e Dante lo seguirà lungo il cammino.

Dante però si accorge del pallore nel volto dell’anima del Maestro e gli chiede come lui possa seguirlo se anche la guida prova paura in quel luogo; Virgilio risponde che in realtà il pallore è dato dall’angoscia procurata per quelle anime che si trovano lì e gli dice di continuare a camminare essendo ancora lungo il viaggio.

Detto ciò i due poeti entrano nel primo cerchio dell’Inferno: Dante non ascolta il pianto delle anime, ma continui sospiri che fanno tremare l’aria di quel luogo eterno, dove si trovano numerose ombre di bambini, donne e uomini, che non subiscono i tormenti fisici.

Virgilio spiega a Dante chi sono queste anime: esse non hanno peccato, ma non hanno ricevuto il battesimo, che è la porta della fede cristiana; infatti queste persone sono vissute prima del cristianesimo e non adorano Dio nel modo giusto e tra costoro c’è lo stesso Virgilio. Per tale mancanza queste anime sono perdute e punite in questo luogo vivendo nel perpetuo desiderio senza speranza.

Quando Dante ascolta queste parole ha il cuore colmo di dolore perché scopre quante persone di grande valore si trovano nel Limbo e chiede al suo Maestro se da questo luogo ci fosse mai stato qualcuno che fosse uscito e giunto tra la schiera dei beati, e Virgilio risponde che una volta venne un potente coronato con l’emblema della vittoria: vennero tratti da questo luogo Adamo, primo padre dell’umanità, Abele, Noè e Mosè legislatore; il patriarca Abramo e re Davide, Giacobbe con il padre, i figli e la moglie Rachele e insieme a molti altri vennero resi beati, ma prima di loro nessuno venne salvato.

Mentre Virgilio parla in questo modo il cammino dei due poeti non si ferma, ma attraversano quel luogo affollato di anime. Dopo non molto tempo Dante vede un fuoco che vince un emisfero di tenebre e capisce che in luogo dimorano anime degne di onore e il pellegrino chiede al suo Maestro chi sono coloro che ricevono un tale onore da essere separati dalla condizione degli altri; Virgilio risponde che la loro fama d’onore risuona ancora sul mondo terreno ottenendo dal cielo tale privilegio.

In quel momento Dante ode un voce intenta a lodare Virgilio e vede quattro grandi ombre che avevano un aspetto né triste né lieto. Il Maestro inizia a elencare quelle quattro anime: il primo è l’antico poeta Omero, con la spada in pugno procede come un signore davanti alle altre anime, l’altro che segue è Orazio, il poeta satirico, Ovidio è il terzo e l’ultimo è Lucano. Virgilio si unisce a quella importante compagnia e gli antichi poeti dopo aver parlato fra loro si rivolgono a Dante e gli rendono onore inserendolo nella loro schiera, in modo che egli diviene il sesto fra tanto ingegno.

La compagnia di poeti arriva fino alla luce parlando di cose che Dante non riporta nel testo, dicendo che era bello parlarne in quel momento. I poeti arrivano ai piedi di un nobile castello, sette volte circondato da alte mure e difeso da un bel corso d’acqua: lo attraversano come fosse terra asciutta ed entrano attraverso sette porte giungendo in un campo di tenera erba dove vi sono delle anime dallo sguardo posato e solenne, con grande autorità nell’aspetto. Dante spiega che queste sono le anime degli spiriti magnanimi, tra i quali ci sono Ettore, Enea e Giulio Cesare; Camilla e Pentesilea, il Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia e in disparte il Saladino.

Alzando lo sguardo Dante riconosce la schiera dei filosofi intorno all’anima di Aristotele, al suo fianco Socrate e Platone; continua l’elenco dei filosofi: ci sono Democrito, Talete, Eraclito, Seneca e il famoso commentatore Averroè.

Il canto si conclude con l’allontanarsi degli antichi da Virgilio e Dante, così che i due poeti riprendono il loro cammino lontano da quel luogo di pace, arrivando nel punto dove l’aria trema e si è completamente immersi nel buio.

Canto V della Divina Commedia, a cura di Martina Michelangeli

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Prima di addentrarci nella spiegazione di questo canto dobbiamo avere in mente la struttura del primo Regno ultraterreno, per poter capire il motivo per cui Dante inizia il quinto canto con il verso : “Così discesi del cerchio primaio/ giù nel secondo...”.

Spiegazione del Canto V.

Dopo aver attraversato la “selva oscura”, l’Antinferno e il primo cerchio costituito dal Limbo, il Poeta entra insieme alla sua guida nell’Inferno vero e proprio: i primi dannati nel Regno del Male sono i lussuriosi e si trovano nel secondo cerchio del primo girone infernale, quello degli incontinenti.

Il canto V inizia con Dante che spiega ai suoi lettori di essere passato dal primo cerchio, cioè il Limbo, al secondo: custode di questo cerchio è Minosse , un giudice che conosce i peccati commessi dal dannato che si trova di fronte a lui, il quale compie il gesto di far girare la sua coda intorno alla sua vita per un numero di volte che corrisponde al numero dei cerchi infernali in cui dovrà subire la dannazione eterna il peccatore: cioè, se Minosse avesse avvolto la sua vita con la coda per cinque volte il peccatore doveva collocarsi nel VI cerchio, cioè tra gli eretici e gli epicurei. Dante rimane stupito dalla visione del demone, che accorgendosi della presenza del Poeta, vivo tra i morti, e della sua guida parlerà a Dante cercando di intimorirlo facendogli notare che non dovrebbe trovarsi lì e non deve fidarsi della sua guida, essendo Virgilio un’anima del Limbo, e non deve credere che la strada da percorrere sia semplice per via della grandezza dell’Inferno, cioè della grande via della perdizione. Virgilio ammonirà Minosse come fece con Caronte , attraverso due famosi versi spiegando al demone che il viaggio di Dante è stato voluto dalla grazia divina e che nessuno può intralciare il suo cammino verso la salvezza :

“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare” .

Dopo l’incontro con Minosse si cambia subito scena e Dante inizia la descrizione del secondo girone nel quale sono puniti i peccator carnali: Dante ascolta le grida di dolore, trovandosi in un luogo che lo porterà al pianto. È arrivato in un luogo privo di luce che “mugghia” come fa il mare a causa della tempesta, se è sferzato da venti contrari. Il Poeta descrive in questo momento la dannazione a cui sono condannati i peccatori di questo girone: la bufera infernale che mai non si quieta, con la sua violenza trascina quelle anime dannate, le tormenta, percuotendole e rivoltandole. Le urla, il compianto e il lamenti aumentano di intensità; qui bestemmiano la potenza divina. Proprio da questi lamenti Dante capisce che in questo luogo di perdizione sono puniti i peccatori carnali, che nella loro vita hanno sottomesso la ragione al piacere.

L’Alighieri utilizza una famosa similitudine per descrivere una parte di questi peccatori: come le ali portano gli storni in inverno, in schiere ampie e compatte, così quel turbine (il vento della bufera infernale) trascina quelle anime malvagie di qua e di là, in su e in giù: non le sostiene mai nessuna speranza né di una tregua, né di una minore pena. Dante utilizza un’altra similitudine per spiegare la composizione di un’altra schiera di dannati che si trovano in quel luogo, i quali si differenziano dagli altri prima descritti: come le gru vanno ripetendo i loro lamenti ( “lor lai” ), formando in cielo una lunga riga, così Dante vede muoversi, emettendo voci di dolore, anime trasportate da quella tempesta; il Poeta parla con la sua guida chiedendo chi fossero quelle anime che sono in questo modo violento castigate dal vento e Virgilio risponde facendo un elenco di personaggi conosciuti nella storia e nella letteratura: la prima delle anime elencate fu regina di popoli che parlavano diverse lingue, la quale fu così dedita alla lussuria che nella sua legge rese lecito il vizio del piacere carnale, quest’anima è quella di Semiramide, della quale si legge che fu la sposa di Nino e succedette a lui diventando regina della terra che regge il Soldano. Altra dannata è Didone, personaggio dell’Eneide, quindi anima cara a Virgilio, che per essere stata innamorata del grande Enea si uccise, e ruppe la fedeltà alla tomba di Sicheo; altra lussuriosa nominata da Virgilio è Cleopatra. L’elenco continua e tra i nomi importanti troviamo: Elena, per colpa della quale si trascorse tanto tempo nefasto, per la guerra di Troia, e il grande Achille, che alla fine combatté con amore, e infine Paride e Tristano. Si conclude qui l’elenco dei grandi personaggi che scelsero la passione invece della ragione nella loro vita.

Martina Michelangeli

7 ottobre 2013


Minosse, re di Creta, figlio di Zeus e d’Europa, era, nel mito, saggio e severissimo legislatore.
Inferno, canto III: vv. 95-96.

Inferno, canto V: vv. 23-24.

Inferno, canto V: v.25.

Inferno, canto V: v. 29. Mugghia: muggisce.

“E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali / di qua, di là, di su, di giù li mena; / nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena”. Inferno, canto V: vv. 40-45.

“E come i gru van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga, / così vid’io venire, traendo guai, /ombre portate da la detta briga”. Inferno, canto V: vv.46-49.

Inferno, canto V: v.46.

Canto VI della Divina Commedia

Il canto VI dell’Inferno inizia con il risveglio di Dante dopo aver perso i sensi nel canto precedente a causa della pietà vero la storia di Paolo e Francesca. Il poeta si guarda intorno e vede nuovi tormenti e nuove anime tormentate da ogni parte di quel luogo.

I due poeti sono giunti al terzo cerchio, dove c’è la pioggia eterna, maledetta, fredda e fastidiosa, senza mai cambiare di intensità: dal cielo cade una grossa grandine, acqua nera mischiata a neve e la terra emana un cattivo odore. Il custode di questo cerchio è il demone Cerbero, animale crudele e mostruoso che latra con le sue tre teste come un cane sui dannati che si trovano in quel luogo: gli occhi sono rossi, la barba sudicia e nera, il ventre largo e le mani hanno lunghe unghie che graffiano i dannati facendoli a pezzi. La pioggia costringe questi dannati a urlare come cani, e per proteggersi a vicenda si muovono uno affianco all’altro.

Cerbero quando vede i due poeti apre le sue tre bocche mostrando le fauci e Virgilio prende la terra con le mani e con i pugni pieni la getta nelle gole affamate di Cerbero: Dante descrive Cerbero come un cane che latra per avere del cibo e dopo aver mangiato si quieta.

Dopo aver fatto calmare il demone Dante e Virgilio camminano su quelle ombre che sono oppresse dalla pesante pioggia: le anime giacciono tutte distese a terra, tranne una che si alza a sedere appena si accorge dei due poeti.

Il dannato si rivolge a Dante, dicendogli di riconoscerlo, ma il Poeta non riesce a capire chi possa essere quell’anima poiché la pena che deve subire non gli permette di ricordare. Il dannato rivela si essere un concittadino di Dante, i fiorentini lo chiamavano Ciacco e per il suo maledetto vizio della gola viene condannato in quel luogo e tormentato dalla pioggia, rivelando che anche le altre anime che si trovano lì sono tutti golosi.
Dante prova pietà per l’anima del concittadino e gli chiede quale sarà il futuro della loro città Firenze: Ciacco risponde che dopo una lunga contesa fra le due fazioni la parte bianca durerà tre anni al potere e quella nera prenderà il sopravvento con l’aiuto di una persona che adesso si destreggia (Bonifacio VIII), e coloro che fanno parte della bianca saranno oppressi con duri provvedimenti, riconoscendo i fiorentini ormai vinti dall’invidia, dalla superbia e dall’avarizia nei loro cuori.

Ciacco non parla più dopo queste parole e Dante gli chiede dove si trovano dei fiorentini a lui conosciuti e ormai passati ad altra vita, se tra beati nel Paradiso o tra i tormentati nell’Inferno. Ciacco rivela che questi uomini si trovano fra le anime più malvagie: diverse colpe li collocano nell’Inferno più profondo e Dante li potrà incontrare se continuerà la sua discesa in quel Regno. Ciacco conclude il suo dialogo con Dante chiedendogli di ricordarlo nel mondo dei vivi, poi rivolge gli occhi verso il basso e ritorna a subire la sua eterna pena con gli altri dannati.

Virgilio rivela che quell’anima non si ridesterà più fino a quando non verrà suonata la tromba angelica del giudizio finale, dopo il quale i beati raggiungeranno la vera perfezione nel godere Dio, mentre, i dannati si riuniranno al corpo accrescendo la loro pena.

I due poeti proseguono la strada continuando a parlare lungo il loro cammino, fino a quando non giungono in un punto dove non si può scendere: qui incontrano Pluto, il grande nemico.

Canto VII della Divina Commedia

Il canto VII si apre con le imprecazioni del demone custode del nuovo cerchio in cui si trovano i due poeti: si tratta del demone Pluto. Dante prova paura e Virgilio lo rassicura che per quanto potere abbia il demone non può impedire il loro cammino, poiché è stato voluto e stabilito dal cielo dove l’arcangelo Michele fece vendetta della superba ribellione degli angeli ribelli; Pluto dopo quelle parole cade a terra.
Dante insieme alla sua guida scende nel quarto cerchio, continuando a percorrere la discesa infernale che raccoglie il male dell’intero universo.

Dante in quel luogo vede molte più anime finora viste e, da una parte all’altra del cerchio, in mezzo a grandi urla, queste ombre spingono dei pesi con la forza del petto, si scontrano in un punto e si dicono: “perché ammucchi?” e “perché disperdi?”. Girano in questo modo lungo quel cerchio dalle due parti verso il punto opposto, continuando a gridare questo ritornello, e quando si arriva al punto di incontro le anime tornano indietro per un successivo scontro.

Dante chiede alla sua guida chi sono questi dannati e Virgilio risponde che una parte di questi furono tutti ciechi di mente nella vita terrena che non spesero mai le ricchezze con misura, e in modo chiaro lo urlano quando arrivano ai due punti del cerchio dove sono separati da coloro che fecero il peccato inverso: questi furono ecclesiastici, compresi papi e cardinali, sui quali l’avarizia esercitò il suo eccesso.
Dante vorrebbe riconoscere questi dannati, ma Virgilio gli rivela che il loro peccato li rende oscuri al riconoscimento e li ha fatti condannare qui lontano dal Paradiso, spiegando come il lottare degli uomini per i beni terreni della fortuna porti solo dolore all’uomo. Virgilio spiega a Dante che Dio ha creato i cieli e ha loro assegnato delle guide per trasmettere in ugual misura la luce divina; nello stesso modo ai beni terreni Dio ha dato una guida e una amministratrice, la Fortuna, che al momento opportuno faccia passare le ricchezze da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, vincendo ogni resistenza degli uomini: lei dispone, giudica e persegue il suo compito, come le intelligenze angeliche perseguono il loro. I suoi mutamenti sono veloci e per questo spesso gli uomini cambiano velocemente condizione, ma non ascolta le imprecazioni degli uomini, anche di coloro che dovrebbero lodarla.

Dopo questo discorso i due poeti scendono verso un luogo di maggior dolore, attraversando il cerchio fino al margine opposto, presso una sorgente che ribolle e alimenta un canale che qui ha origine. L’acqua scura del ruscello sfocia nella palude che viene chiamata Stige, dopo essere disceso da tetri e cupi dirupi. Dante lungo questo percorso vede anime coperte di fango e nude col volto arrabbiato, si battono con le mani la testa e il petto con i pugni, dilaniandosi con i denti a morsi. Virgilio rivela che queste sono le anime degli iracondi e immersi nell’acqua cupa ci sono anime che sospirano la fanno gorgogliare in superficie e nella melma dicono: “Fummo tristi sulla dolce terra rallegrata dal sole, portando dentro un fumo accidioso: ora siamo tristi in questa melma oscura”.

I due poeti girano intorno a quella palude, tra la riva asciutta e la melma, con gli occhi rivolti verso quelle anime che ingoiano il fango, giungendo alla fine ai piedi di una torre.

Canto VIII Divina Commedia

Dante arrivato ai piedi della torre citata alla fine del canto precedente vede due fuochi che comunicano un terzo fuoco più lontano, e rivolgendosi a Virgilio chiede cosa significano quei segnali, e la guida risponde che Dante può vederlo con i suoi occhi: si vede una piccola imbarcazione venire sull’acqua verso i due poeti guidata da un solo marinaio, il demone Flegiàs che cerca di spaventare Dante, ma Virgilio lo rimprovera e il demone reprime la sua ira.

Virgilio scende nella barca seguito da Dante e salendovi sopra il poeta si accorge come fosse carica di anime. Mentre la barca percorre il suo cammino un’anima coperta di fango si rivolge a Dante stupendosi di vedere un vivo fra i morti, che Dante riconosce definendolo “maledetto”: il dannato a queste parole cerca di far cadere Dante dalla barca ma Virgilio lo riporta al suo posto con gli altri dannati, rivelando a Dante che quella era l’anima di una persona arrogante e che coloro che in vita furono potenti e di dignità regale a causa dei loro peccati si ritrovano nella melma insieme agli altri. Dante rivela alla sua guida di desiderare di vedere quell’anima buttata nell’acqua sudicia e prima di superare l’altra riva i poeti guardano come quell’ombra subì quello strazio dalle altre anime della palude rivelando il suo nome: Filippo Argenti, il quale si rigirava i denti contro se stesso per l’ira.

Dopo questa scena Virgilio avverte l’allievo che si stanno avvicinando alla città che si chiama Dite, con i cittadini aggravati dalle pene e controllata da un innumerevole esercito di diavoli. I due poeti giungono ai profondi fossati che girano intorno a quella città di disperazione, dove per Dante le mura sembrano di ferro.
Flegiàs grida alle anime di scendere dalla barca e alla vista di Dante i diavoli si precipitano dal cielo per chiedere perché un vivo si trovi lì e Virgilio accenna loro di voler parlare in disparte, ma i diavoli vogliono solo parlare con l’antico poeta urlando a Dante di allontanarsi e di ritornare da solo sulla terra. Il Fiorentino si sente smarrito a quelle parole e prega la sua guida di non abbandonarlo, e Virgilio lo rassicura che il suo cammino non può essere ostacolato da nessuno e che lui non l'abbandonerà nell’Inferno.

Virgilio si allontana da Dante per andare a parlare con i diavoli, ma la guida non si ferma a lungo con essi e si dirige verso Dante con passi lenti, il volto a terra e gli occhi privi di sicurezza ripetendo fra i sospiri che gli hanno impedito di entrare nella città del dolore. Virgilio però consola Dante dicendogli che non perderà questa lotta contro i diavoli, dediti a comportarsi in questo modo, ma presto il loro cammino sarà ripreso grazie a colui che supererà i cerchi per aprire a loro le porte della città maledetta.

Canto IX della Divina Commedia

Il canto XI inizia con Virgilio che avverte Dante che presto arriverà in loro soccorso il Messo di Dio, colui che permetterà ai due poeti di continuare il loro cammino: Virgilio rivela a Dante che nessuno della sua condizione ha mai compiuto quel viaggio fino a quel luogo, dove la palude e il suo cattivo odore circonda quella città, dove loro sono ostacolati nel passaggio.

Dante ad un certo punto viene attratto dal veloce movimento di tre Furie infernali macchiate di sangue che si alzano dall’alta torre, e hanno l’aspetto e le movenze femminili e sono circondate di serpi verdissime, per capelli hanno serpentelli e ceraste con le quali coprono le terrificanti tempie. Virgilio riconosce quei mostri e rivela a Dante i loro nomi: Megera è a sinistra, quella che piange a destra è Aletto e nel mezzo c’è Tesifone. Ognuna delle Furie si lacera il petto, si percuote con le mani così forte che Dante per paura si stringe al poeta. Le Furie invocano Medea e Virgilio prontamente protegge il suo allievo avvertendolo di non guardare negli occhi la Gorgone al suo arrivo per non essere trasformato in pietra e non poter più tornare sulla terra; Virgilio per essere sicuro copre con le sue mani il volto di Dante.

Dopo questa terribile angoscia Dante spiega che dal cielo si forma una nube e un vento fortissimo: Virgilio permette all’allievo di vedere l’arrivo del Messo del cielo, che con la sua luce allontana e spaventa le anime dannate di quel luogo. Dante si rivolge a Virgilio e il maestro gli accenna di quietarsi e di chinarsi di fronte al Messo celeste, il quale apre la porta con una verghetta senza avere nessuna resistenza e urlando ai diavoli del perché della loro superbia di voler ostacolare il cammino di Dante voluto da Dio. Quando il Messo si allontana i due poeti entrano nella città, sicuri dopo il santo soccorso: vi entrano senza nessuna resistenza e Dante vede intorno una sterminata pianura, piena di dolore e di gravi tormenti.

Dante vede circondate da fiamme delle tombe, talmente infuocate che nessun lavoro artigianale necessita di ferro più ardente: tutti i coperchi delle tombe sono sollevati e vi escono lamenti così angosciosi che sembrano di dannati e tormentati. Virgilio spiega che sono i capi delle eresie con i loro seguaci, di ogni setta, e le loro tombe sono colme più di quanto Dante creda e i sepolcri sono roventi.
I due poeti continuano il cammino fra le tombe e le alte mura di Dite.

 

Canto X Divina Commedia

Virgilio procede, seguito da Dante, fra le mura di Dite e quei luoghi di tormento: il Fiorentino chiede al suo maestro chi sono i dannati di questo luogo e l’antico poeta risponde che vi sono collocati quelli che hanno seguito Epicuro e che credono che l’anima muoia con il corpo.

Da una delle tombe all’improvviso si sente una voce, che si rivolge a Dante definendolo “Tosco”, riconoscendo la sua parlata fiorentina, la stessa lingua di chi ha parlato. Dante si spaventa al suono di questa voce, ma Virgilio lo esorta a parlare con quell’anima che da una delle tombe si è alzata fino alla vita.
Dante fissa negli occhi quest’anima, che si erge con il petto e con la fronte come se avesse in disprezzo l’Inferno. Virgilio spinge Dante verso quella tomba avvertendolo di usare parole adeguate: l’anima dannata è quella di Farinata degli Uberti, politico di Firenze della parte dei ghibellini. Farinata chiede a Dante chi fossero i suoi antenati, e Dante senza nascondere nulla risponde, ma l’anima precisa che furono suoi nemici politici e che per due volte la sua fazione politica li fece allontanare da Firenze, per essere stati sconfitti in due battaglie. Dante sentendosi colpito nell’orgoglio risponde che anche se furono cacciati ritornarono per tutte e due le volte a Firenze, a differenza degli avi di Farinata.

Proprio quando la tensione fra i due cresce appare un’altra anima da una delle tombe, che come se si fosse messa in ginocchio, sembra in cerca di qualcuno, guarda Dante e gli chiede se c’è un’altra persona con lui: il poeta risponde che la persona che l’anima che cerca non si trova con lui, suo figlio Guido Cavalcanti, poiché non è stato degno di compiere quel viaggio, che Dante non compie da solo ma con l’aiuto di due guide. L’uomo a queste parole, e sentendo Dante parlare al passato, si spaventa e gli chiede se il figlio fosse ancora tra i vivi, ma il poeta rimane basito di fronte a quella domanda e non risponde, facendo sprofondare di nuovo nella tomba e con il volto segnato dal dolore quell’anima.

In tutto questo l’anima di Farinata non si è mossa, ma riprende il discorso politico con Dante dove lo ha lasciato: i suoi antenati non riuscirono a tornare a Firenze e questo per lui era un tormento peggiore rispetto alla pena che deve subire; dopo questa rivelazione Farinata proferirà a Dante il suo esilio, facendogli capire che anche lui, come gli antenati del dannato, non tornerà a Firenze.

Farinata chiede a Dante il perché la sua parte politica non viene accettata a Firenze, e il poeta spiega che dopo la sanguinosa battaglia di Montaperti (1260) i guelfi hanno deciso di reprimere duramente i ghibellini. Farinata rivela che lui ha sempre combattuto per la patria, schierandosi anche contro la sua fazione quando i suoi compagni presero la decisione di radere al suolo la città. Dante per questo motivo prova stima nei confronti del dannato, in quanto uomo orgoglioso della sua patria e dell’amore che provava verso la sua Firenze.

Prima di lasciare il dannato Dante chiede, ripensando al dialogo avuto con il padre di Guido Cavalcanti, perché loro possono prevedere il futuro ma non conoscono il presente: Farinata spiega che per la loro colpa in vita, essendo stati attaccati al presente e non voler vedere le cose lontane, adesso da morti riescono a guardare bene le cose future ma non ciò che avviene nel presente. Dante dopo questa risposta, preso dal rimorso chiede a Farinata di riferire a Cavalcanti padre di aver frainteso la sua domanda e di essere caduto nell’errore, riferendo all’anima che il figlio Guido si trova ancora tra i vivi. Dante chiede a Farinata i nomi degli altri dannati che si trovano fra quelle tombe, ma il politico cita due nomi ma poi si nasconde di nuovo nel suo sepolcro.

Virgilio richiama Dante e i due poeti si incamminano di nuovo, ma il maestro accorgendosi dei pensieri del suo allievo gli chiede a cosa pensa: Dante rivela che le parole riferite da Farinata sul suo futuro gli sembrano ostili. Virgilio riprende Dante dicendogli che dovrà sempre ricordare quelle parole, e quando arriverà a incontrare l’amata Beatrice lei sarà in grado rivelargli la verità e il fine ultimo di questo suo viaggio.

I due poeti lasciano il muro della città andando verso il centro, per un sentiero che termina in una valle dalla quale giunge un cattivo odore.


 

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